Nelle buste degli assegni previdenziali molti occhi cercano numeri che cambiano di poco, ma che determinano le scelte quotidiane: quanto aumenterà la pensione nel 2026? Le stime ufficiali parlano di un’inflazione acquisita del 1,7% per il 2025, dato che verrà preso come base per la rivalutazione degli assegni. Dietro quel valore ci sono regole tecniche e scelte politiche: gli aumenti non saranno uniformi, ma modulati per fascia di trattamento. Per questo motivo chi percepisce una pensione bassa otterrà l’incremento pieno, mentre i titolari di assegni più consistenti avranno un adeguamento parziale. Un dettaglio che molti sottovalutano è che la perequazione cerca di proteggere il potere d’acquisto delle pensioni senza però trasformarsi in un aumento lineare per tutti. Lo raccontano gli esperti e lo vedono le famiglie, specialmente nelle aree urbane dove le spese sono più alte: è un fenomeno che in molti notano solo d’inverno, quando bollette e spese alimentari pesano maggiormente.
Indice
Perequazione e tasso: come si calcola l’aumento
La perequazione automatica è il meccanismo che adegua le pensioni all’andamento dei prezzi al consumo. Si stabilisce un tasso di rivalutazione che, per il 2026, è stimato intorno all’1,7%. Tuttavia, la legge prevede un’applicazione a scaglioni: per le pensioni fino a quattro volte il minimo INPS l’adeguamento è al 100% del tasso; per la parte tra quattro e cinque volte il minimo si applica il 90%; oltre cinque volte il minimo la rivalutazione scende al 75%. Questo schema serve a concentrare maggior sostegno sulle pensioni più basse, un criterio che molti tecnici definiscono più “equo” ma che allo stesso tempo riduce l’effetto sugli assegni più alti. Un dettaglio che molti sottovalutano è la differenza fra aumento lordo e aumento netto: tasse e contributi possono ridurre la cifra che arriva effettivamente in busta. Nel corso dell’anno si definiranno i valori definitivi e le circolari operative, ma l’impianto rimane questo: fasce e aliquote diverse per graduare l’incremento.
Le previsioni più diffuse collocano l’aumento lordo tra 1,6% e 1,8%, con esempi concreti che spiegano l’impatto sui vari importi: su una pensione lorda di 1.000 euro l’incremento si aggirerebbe tra +16 e +18 euro; su una da 3.000 euro tra +48 e +54 euro. Le tre fasce di rivalutazione (100%, 90%, 75%) spiegano perché la crescita non è lineare. Per le pensioni minime è previsto un adeguamento straordinario, ma più contenuto rispetto agli anni precedenti: l’extra dovrebbe scendere dal 2,2% all’1,5%. Per chi riceve assegni vicini al minimo l’incremento sarà quindi limitato: su una pensione intorno ai 520–550 euro lordi mensili l’aumento si tradurrebbe in pochi euro al mese. La pensione di invalidità attualmente indicata a 333,33 euro potrebbe salire a 336,66 euro con la rivalutazione stimata; il trattamento minimo passerebbe da 598,61 a 604,60 euro e l’assegno sociale potrebbe salire da 534,41 a 539,75 euro, mentre in scenari più ottimistici e con misure aggiuntive l’importo dell’assegno sociale potrebbe avvicinarsi a circa 622,86 euro. Un aspetto da considerare è la possibile modifica dell’Irpef: l’ipotesi di ridurre il secondo scaglione dal 35% al 33% porterebbe benefici soprattutto a chi ha pensioni medie e alte; simulazioni indicano un guadagno annuo di circa 640 euro per una pensione lorda di 60.000 euro e di circa 240 euro per una lorda di 40.000 euro. Infine, restano questioni operative sulla reversibilità e l’impatto netto dopo tasse: molti aspetti verranno chiariti dalle comunicazioni ufficiali, intanto resta l’immagine concreta di aumenti contenuti ma mirati verso chi ha meno.